lunedì 30 marzo 2015

MILANO... eppur mi son scordata di te!




È una di quelle giornate in cui comincia a fare caldo, una di quelle in cui la gente comincia a sbottonarsi il cappotto, aprendolo dolcemente, “come un invito alla primavera”.
Sulle prime luci (qui albeggia davvero presto!) si odono i primi rumori, i cigolii delle ruote dei tram, che stridono sulle rotaie arrugginite oppure appena lubrificate. Migliaia di persone fermano la sveglia, indossano le loro pantofole ancora invernali e mettono su il caffè o l’acqua per il tè. I loro respiri si uniscono in un coro silenzioso e perpetuo, spingendo fuori l’anidride carbonica che si confonderà con il mondo, di tutti e di nessuno.
È il lento incedere dell’uomo nella sua storia.
 
Come gli alberi, che si stagliano alti nelle foreste, più longevi e sereni di noi, che respirano all’unisono e non si stancano mai, non ci provano mai, a stancarsi, a morire.

Aspetto che la moka rumoreggi e lascio bruciare la mia prima sigaretta della giornata osservando il mondo da un balcone. È un balcone speciale, quello dove ho consumato tutte le mie sigarette mattutine, prima degli esami, prima degli appuntamenti importanti, prima delle giornate che si sarebbero rivelate “niente”. Ho fumato lì leggendo notizie, snocciolando pensieri buoni e cattivi, facendo propositi, progetti sugli abiti con cui avrei sostituito il pigiama.

La moka rumoreggia.
Si parte.

Buongiorno Milano!
E che cavolo questo maledetto riflesso condizionato!  
Il passo milanese!!! Quel passo che è a metà tra una camminata e la corsa dei maratoneti. Per quanto si possa provare a camminare piano, a gustarti un’andatura rilassata, diventa inevitabile: ti associ ad un mondo di gente svelta che corre e scappa di qui e di lì, perché è in ritardo, perché deve percorrere quei dieci buoni kilometri per raggiungere il posto di lavoro, il supermercato più economico, la scuola dei figli...
E mai come alle sette del mattino puoi leggerlo forte e chiaro negli occhi dei passanti, in quelli che riesci ancora ad incrociare, perché in effetti molti hanno già gli occhi altrove, sull’i-pad, sull’i-phone, sul tabellone contaminuti dell’autobus. 

C’è tanta vita e altrettanta morte.
C’è un mucchio di gente, che varia nel colore, nell’età, nel peso, nei costumi, eppure sei così tremendamente e fottutamente solo.
Puoi attaccarti ai piccoli gesti di umanità: la battuta di un ragazzo adolescente, il sorriso di una donna dai capelli bianchi come la neve e una mano sul carrellino della spesa, una mamma che carezza la guancia del figlioletto…

E sei già nella metro!
La metro, che rimarrà sempre una ‘cosa’ così schifosa e, allo stesso tempo, così banalmente affascinante.
Gruppi di persone ammassate, contatto di pelli e capelli, borse da lavoro che toccano zaini su cui pennarelli indelebili hanno lasciato tracce di amori e di dediche estrapolate dai pezzi in voga di rapper tatuati.
 Un vagone che si trasforma in un contenitore di tutti gli odori e i sapori e i pensieri del mondo.
Che se lo prendessero così com’è e lo lanciassero su Marte, potrebbero tranquillamente porre le basi per popolare un nuovo pianeta, tale e quale alla Terra, né meglio, né peggio.

Milano è così. Ti illudi di vivere in una grande città e poi ti accorgi che ti muovi e respiri in un paio di kilometri quadrati, con il tuo salumiere di fiducia, lo sportello della tua banca, il tabacchino di fronte casa!
Ti muovi sottoterra, sali su un vagone e, senza rendertene conto, riemergi in quello che ti sembra un altro paese e che, in effetti, nella tua terra d’origine lo sarebbe!
Ma a Milano no, a Milano tutto fa brodo!

Milano Milano (senza hinterland) fa un milione, trecentotrentatre mila e oltre di abitanti, sparsi su una superficie di 181 km² con una densità media di più di settemila persone per km².
E dire che Ostuni con le sue frazioni si estende su ben 225 km² e in media di persone ce ne sono una cento cinquantina per km²!
Il paragone non regge, lo ammetto. E poi ho smesso di pensarla come una volta, di credere che Dio avrebbe fatto più fatica a trovarmi in mezzo ai grattacieli che su un morso di costa.

Però una cosa dovete concedermela.  
E questa cosa qui riguarda la solitudine.
Ci sono tanti tipi di solitudine quante sono le ragioni che la provocano.
Ce n’è una che ho provato tante volte e viene dall’incomprensione, una che profuma di libertà e indipendenza e non mi ha mai fatto paura. Poi c’è quella che riguarda le persone che ami, quando sono lontane e le vorresti abbracciare forte forte. Esiste la solitudine di pensiero, che ti coglie quando meno te l’aspetti, anche se sei in famiglia, a casa, con gli amici.

Poi c’è questa qui, questa che provo stamattina, che mi si attacca come una seconda pelle, come una tuta subacquea scura, obbligatoria e facoltativa insieme. È la solitudine che accomuna tutti quelli che hanno fermato la sveglia con me stamattina, pronti a riempire la giornata intensamente, più intensamente possibile, perché altrimenti si muore, si finisce per avere il tempo di aver paura, una paura che uccide.

Oggi, qui, guardandomi attorno, posso scorgere tutti gli atti della mia vita, quelli passati, i presenti e i futuri. Posso riconoscere quello che sono stata e immaginare ciò che sarò. Vedo addirittura distintamente quello che non potrò e non vorrò mai essere. 
Quanto e come vedo stamattina!
Questa solitudine qui è originata dalla nostalgia per l’attimo appena trascorso, quello mai più recuperabile, perso tra le rotaie di quel tram e le gambe ammucchiate di tutta questa cazzo di gente. 
Vedere un così grande potenziale, strizzato tra le cinghie dell’economia e passato al setaccio tra le maglie del tempo che incalza, mi provoca un dolore enorme, lo sento nel petto. Si trasforma in solitudine quando mi accorgo di essere umana tra gli umani, di respirare tra miliardi di respiri senza che nulla abbia più un senso, perché il tutto diventa nulla… 
Mi sento il fiato del tempo sul collo, sento che qualcosa mi rincorre, accelero il passo, corro, scappo, ma da cosa?? Vorrei gridare: “Cosa diavolo corriamo tutti quanti?” “Dove?” “Ne vale la pena?”

E allora io preferisco la solitudine della natura, sì, decisamente. Preferisco la vivacità delle onde del mare, che fanno tanto rumore per nulla, ma sanno fare rumore. Preferisco il vento, le cicale e le lumache dopo la pioggia. Preferisco le cose che mi salvano dalla nostalgia dell’attimo appena trascorso, quelle cose che se il tutto diventa nulla ci pensano loro a farlo tornare ‘tutto’, incoraggiandoti eternamente.

 
Mi piace essere ingannata, sono debole, non sopporto le facce del mondo buttate lì tutte insieme, nella mischia, a dichiarare che la vita fa venire le rughe, le malattie e che bisogna mandare avanti il carro.  
La vita è bella. 
E quando è brutta c’è il mare a ricordarcelo, ci sono le lumache che si fanno una passeggiata sui muretti, l’odore delle polpette, un libro letto sull’amaca che dondola.



Purtroppo a Milano il mare non c’è, le lumache neppure… in un anno si fanno meno polpette del numero di abitanti di Ostuni e i libri si leggono in metro, incastrati nei minuti che ci separano dai luoghi che raggiungeremo, come se il posto dove ci sta portando la trama fosse meno importante, meno reale.

Penso che sono cambiata molto.
E chissà quante altre volte cambierò.

lunedì 9 marzo 2015

Un IO pe(n)sante




Vivere di ‘pesantezze’ fa bene al cuore.
Non lasciate che la leggerezza vi faccia volare lentamente sulle cose, sfiorandole appena, senza conoscerle, toccarle, capirle.
Non lasciate che la superficialità di un tocco dato per sbaglio vi faccia credere di essere stati a contatto con una questione, con un problema, con una persona.
Non lasciate che nessuno vi dica come dovete essere o comportarvi. La verità non esiste, e se esiste non è mai assoluta.
Sprecate tutto il tempo necessario per spiegare il vostro punto di vista, non rinunciate a farlo.
Provate a cambiare idea.
Mantenete un rapporto di confronto con l’idea di bene universale, non allontanatevene mai.
Lasciate che gli altri non vi comprendano, esistono momenti diversi nella vita di ognuno di noi e non sempre devono coincidere.
Fate in modo di essere sinceri, anche se questo vi costa parecchio, anche se significa mostrare i vostri difetti, essere meno apprezzati, apparire più deboli.
Lasciate che gli altri vi vedano per come siete e mai per come dovreste essere, che mai proiettino su di voi sé stessi.
Non tutti sono in grado di esercitare un’influenza positiva sulla nostra vita.
In tanti non ci riescono, perché è una cosa delicata, difficile.
Nessuno, però, che ci conosca e ci ami, deve avere il diritto di sminuirci, spezzare il nostro entusiasmo, la nostra fede profonda nelle cose.

Dobbiamo rivendicare il diritto a credere nei nostri progetti.
Dobbiamo difendere la nostra importanza, il nostro impegno.
Dobbiamo convincere chi non lo crede che fare di più e meglio vale la pena e può cambiare le cose, può rivoluzionare la vita che ci appartiene e quella delle persone con cui siamo a contatto.
Dobbiamo smettere di giustificare le nostre idee, ma iniziare a spiegarle e difenderle, sopra ogni cosa.

Se qualcosa ci rende fieri è perché rappresenta per noi qualcosa di cui andare fieri.
Il resto sono solo le parole di chi non si è sforzato di capire, ma è rimasto in superficie.
È la pesantezza a rompere le barriere della superficialità, a spingerci a fondo.
La 'pesantezza sulle cose' genera riflessione, la leggerezza solo problemi.

Non dobbiamo temere di essere profondi e sognatori perché la crescita e l’arricchimento stanno nel “più”, non nel “sufficiente” e chi crede solamente nel “sufficiente” non è pronto darsi, rimane leggero, non si rende utile, ma inutile.
Chi crede nel “sufficiente” non sa che il segreto di una meritata leggerezza sta proprio nel passare attraverso la pesantezza.

Come questo post, che ha l’aria di essere così pesante, eppure mi ha reso così leggera.
Piena di entusiasmo, orgogliosa, consapevole. Io faccio del mio meglio.
Faccio del mio meglio anche se non salvo il mondo.
Magari, 
salvo me stessa.