mercoledì 17 giugno 2015

Scuola di vita

Sono trascorsi ormai alcuni anni dal giorno in cui mi ritrovai a scrivere questi pensieri.
La persona che li ha ispirati è ben matura e ben meritevole della mia stima.
Rileggendoli ho pensato che sì, per me questi pensieri valgono ancora e spero ancora e ancora e ancora...
Ho deciso di non cambiare neppure una virgola e lasciare tutto com'è.

Tratto da "Conversazioni social(i)":


<< Ho letto il tuo post attentamente e ha suscitato in me un irrefrenabile desiderio di rispondere sia a te che a quella parte di me che tante volte si è posta e tante volte ancora si porrà le medesime domande.
Quello che tu chiami un inutile esercizio mnemonico, anche se non te ne accorgi, nel momento stesso in cui sei seduta e concentrata con gli occhi fissi sul libro e sulle parole lì impresse, ti sta lasciando un segno indelebile. Mentre apprendi il lessico, articoli il suono,  il tuo cervello incamera, si gonfia, abbraccia un’idea e autonomamente ne ricava un senso, lo associa alla modernità, stimola collegamenti. E per quanto riguarda il contenuto,  nonostante ti sembri di concentrarti sulle parole e non sul senso generale, non dimenticare quanto ogni singola parola sia importante, quanto peso assuma a seconda del contesto, di chi la pronuncia e del valore che s’intende affidarle perché ne sia portatrice, anche dopo centinaia e centinaia di anni. Mentre credi di perdere le ore con la schiena piegata e gli occhi stanchi, un mondo di concetti e idee fluisce nella tua mente e lì avrà sede, anche a livello inconscio, praticamente per sempre.
È chiaro che questa non è l’unica modalità di conoscenza e che è altrettanto bello, se non di più, sedersi a chiacchierare con le persone, osservare un paesaggio, un quadro, ascoltare musica … Nessuna di queste cose esclude le altre ed è per questo che sono fermamente convinta che chiunque, da qualsiasi scuola sia ’uscito’, comprerà un libro di un autore classico, soprattutto se economico! Ci siamo abituati a credere che il piacere sia situato nelle scelte che ci appaiono libere e perciò chi obbliga e impone ci sta necessariamente facendo un torto.
Io non la vedo così, la scuola suggerisce e porta all’attenzione dei contenuti ai quali probabilmente, se non la frequentassimo, non ci accosteremmo mai. Chi insegna (e non perché sia pagato per farlo) ha il dovere morale di trasmettere delle nozioni che non sono superate o inutili, ma giacciono nelle nostre coscienze per il solo fatto di essere uomini. Chi sceglie di studiare lettere classiche, te lo assicuro, non riceve nessuna chiamata divina e si stanca di studiare tanto come chi prende un’altra facoltà. Non esistono menti privilegiate, ma, anzi, forse lo siamo tutti noi che siamo venuti a contatto con queste conoscenze. La cultura è di tutti, è di chiunque abbia il coraggio e la pazienza di apprezzarla, e si assuma la responsabilità di condividerla, moltiplicarla, tenerla in vita. Quello che oggi ti appare come un invito ad odiare (che si tratti di i classici, di teoremi o di biologia, fa lo stesso) puoi considerarlo come il primo appuntamento con una persona che non conosci ancora, ma che col tempo imparerai a gradire, a stimare, ad ammirare. È più di un insegnamento ad  amare, fidati!
L’esame di maturità ci spaventa tanto perché chiude un ciclo della nostra vita proprio quando ci sembra di essere già con un piede fuori dal confine. Ci chiediamo che senso abbia dover fare quel passo indietro, riprendere in mano tutti i contenuti dell’ultimo anno ed offrirli ad un po’ di sconosciuti, come per un sacrificio in cui non abbiamo nulla da chiedere in cambio. Ecco, non è proprio così, in verità stiamo restituendo tutto quello che la scuola ci ha trasmesso e comunicato nel nostro percorso, stiamo rispondendo ad una domanda (Ne è valsa la pena?) e ci stiamo prendendo l’ultimo vantaggio dell’essere studenti: superare una prova in un contesto caldo e accogliente. Sono d’accordo con  te quando dici che è riduttivo, ma non per lo stesso motivo. Quello che sei e che sei diventata non devi dimostrarlo durante gli scritti o l’orale, devi conservarlo come il dono che ti ha fatto l’esperienza e come il regalo che fai ogni giorno a te stessa quando apri gli occhi e le orecchie, devi considerarlo il vero premio. Per me, invece, è riduttivo perché quest’esame è solo un assaggio delle prove che affronterai nella tua vita e in nessun caso la valutazione che ti daranno influenzerà quello che eri o che diventerai, almeno finché avrai di fronte persone che sono fatte esattamente delle tue stesse paure, debolezze, umanità. Non sforzarti di compiacere gli altri e non pensare mai, per nessun motivo al mondo, che questo tempo sia sprecato. Riga dopo riga, esame dopo esame, stai imparando a vivere e quando ti guarderai indietro saprai che ne è valsa la pena. In bocca al lupo!!! >>


domenica 24 maggio 2015

Ha frequentato la vita quest'anno?

Sono sotto gli alberi, in attesa, e vedo tante persone uscire dal portone di una scuola, alcune liete, altre a testa bassa.
-"Che succede?" domando ad un fanciullo che strilla di contentezza.
-"Non lo sa? E' giugno, sono usciti i quadri con i voti".
-"E tu?"
-"Io sono vivo per un altro anno."
-"E io?"
-"Chi la conosce a lei? Forse è stato respinto".

Allora, più per ingannare il tempo che per altro, vado a controllare i miei voti. C'è una gran calca davanti a una parete illuminata di taglio dal sole. Ci sono ragazzi, donne, vecchi, bambini, tutti ansiosi a cercare il loro nome e i loro voti.
-"Maledizione", dice un signore sbattendosi il cappello polveroso su una gamba.
-"E' andata male?".
-"Sono stato rimandato in Generosità e Pazienza".
Leggermente preoccupato mi alzo in punta di piedi per trovare nella selva dei numeri quelli che mi riguardano. L'unico problema è che non so ancora chi sono, come mi chiamo: e allora come farò a sapere i risultati? Quale sarà la mia colonna?
-"Scusi", domando a un bimbo di quattro o cinque anni, "secondo lei, come sono andato? Più o meno, intendo, all'incirca. Mi dica, sia schietto".
-"La sua colonna è tutta bianca".
-"E allora?".
-"Ma ha frequentato? Dico, ha frequentato la vita quest'anno?".
-"Pochino".
-"Sarà per questo che non c'è scritto nulla. Io però sono promosso".

(da Marco Lodoli, Calendarietto, Roma, Castelvecchi, 1994)

sabato 18 aprile 2015

"C'è qualcosa nella morte che somiglia all'Amore..."



Morire è come nascere.
Non sai come e quando accadrà.
Aspetti.
Aspetti la morte così come si aspetta la vita. Temi la morte, come la vita.
Non esiste una soluzione a tutto questo. Accade e basta. Inizio e fine o, forse, fine ed inizio.
Noi non lo sappiamo, noi non sappiamo proprio niente di niente. Il motivo, la ragione profonda di tutto ciò. La fede che sviluppiamo serve ad aggrapparci alle cose che facciamo, a dare un senso, chè altrimenti tutto ci parrebbe sprecato, inodore, incolore, cadente, sotterraneo. Dobbiamo dare peso, perché la leggerezza non è di questa vita, non è della condizione umana, non sta nei limiti che abbiamo tracciato ed imposto a noi stessi.

Chi muore aspetta in silenzio, chiude gli occhi, delicatamente, come accompagnando pensieri di dolore. Li accoglie e li accantona, sempre delicatamente, con la poca forza che gli resta. Si guarda intorno e non riesce ad accettare l’idea di abbandonare tutto, di salutare i luoghi che l’hanno ospitato, divertito, annoiato.

Chi nasce aspetta in silenzio, apre gli occhi delicatamente, come accompagnando pensieri che non sa ancora come si pensano. Accoglie ed accantona segmenti di pensiero, con quella forza che da poca, presto, diverrà molta, immensa. Deve fare i conti con l’infinità di cose che vedrà, dovrà stare attento a quanto se ne affeziona, conoscerà il dolore che questo porta con sé, sempre, ovunque. Aspetterà di essere accolto e amato, coccolato e divertito. Aspetterà di annoiarsi.

Accarezzarti mi sporca le mani, ma di uno sporco bello. Accolgo tra le mie dita la polvere e la terra che hai raccolto su di te. Odora del tuo respiro e del tuo entusiasmo.
È bello accarezzarti. E lo sarà sempre.

Mi lavo le mani e ne viene fuori un colore simile al tuo. Un marroncino chiaro, quasi rossiccio. ‘Quanto ti amo’ penso. ‘Sei come me, TU come ME’, nel colore e nella stazza, nella convinzione, nelle ragioni profonde, nella testardaggine e nel modo di amare, disordinato e composto, pieno di dignità.

Sei un figlio, ma anche un padre, un amico, sei un compagno di giochi e sei l’amore della mia vita, quello in cui mi sono riflessa e in cui mi sono riconosciuta.
Quante cose per un cane!
Quando ho scattato questa foto eravamo un po’ tristi, è vero. Non siamo riusciti a sorridere, come facevamo di solito. Sapevamo di doverci lasciare e avevamo paura.
Quando ho scattato questa foto mi ricordo che poi abbiamo pure pianto, tutti e due, solo che le mie lacrime rigavano dritte il viso e precipitavano sul pavimento, sui miei pantaloni, sulle tue zampe.

Le tue di lacrime, invece, rimanevano sotto gli occhi e ne inumidivano i contorni.
Ci siamo guardati con l’aria di due vecchi amici, di quelli  che si intendono con un’occhiata.
Quello che ti ho detto lo pensavo davvero.
La morte ti ha ridato la vita.
E ora che non ci sei, anche se non ti posso vedere, anche se non ti posso toccare,
io TI SENTO,
ti immagino correre e abbaiare, spezzare le noci con i denti e rifiutarti di cedermi il pallone per giocare, ti vedo fermarti a metà della scala per dare la zampa, perché altrimenti non si passa!

E poi lo so che sei in buona compagnia, sono sicura anche di questo.
So che c’è chi ti lancia la palla e ti procura le noci. 

Quando ti penso, mi commuovo e poi sono felice, felice perché ci sei stato, hai colorato la mia esistenza e del tuo colore per sempre porterò la traccia.
Comportati bene e ricorda che ti amo e sono sempre con te “come all’inizio e fino alla fine”.
E la morte non è la fine.


lunedì 30 marzo 2015

MILANO... eppur mi son scordata di te!




È una di quelle giornate in cui comincia a fare caldo, una di quelle in cui la gente comincia a sbottonarsi il cappotto, aprendolo dolcemente, “come un invito alla primavera”.
Sulle prime luci (qui albeggia davvero presto!) si odono i primi rumori, i cigolii delle ruote dei tram, che stridono sulle rotaie arrugginite oppure appena lubrificate. Migliaia di persone fermano la sveglia, indossano le loro pantofole ancora invernali e mettono su il caffè o l’acqua per il tè. I loro respiri si uniscono in un coro silenzioso e perpetuo, spingendo fuori l’anidride carbonica che si confonderà con il mondo, di tutti e di nessuno.
È il lento incedere dell’uomo nella sua storia.
 
Come gli alberi, che si stagliano alti nelle foreste, più longevi e sereni di noi, che respirano all’unisono e non si stancano mai, non ci provano mai, a stancarsi, a morire.

Aspetto che la moka rumoreggi e lascio bruciare la mia prima sigaretta della giornata osservando il mondo da un balcone. È un balcone speciale, quello dove ho consumato tutte le mie sigarette mattutine, prima degli esami, prima degli appuntamenti importanti, prima delle giornate che si sarebbero rivelate “niente”. Ho fumato lì leggendo notizie, snocciolando pensieri buoni e cattivi, facendo propositi, progetti sugli abiti con cui avrei sostituito il pigiama.

La moka rumoreggia.
Si parte.

Buongiorno Milano!
E che cavolo questo maledetto riflesso condizionato!  
Il passo milanese!!! Quel passo che è a metà tra una camminata e la corsa dei maratoneti. Per quanto si possa provare a camminare piano, a gustarti un’andatura rilassata, diventa inevitabile: ti associ ad un mondo di gente svelta che corre e scappa di qui e di lì, perché è in ritardo, perché deve percorrere quei dieci buoni kilometri per raggiungere il posto di lavoro, il supermercato più economico, la scuola dei figli...
E mai come alle sette del mattino puoi leggerlo forte e chiaro negli occhi dei passanti, in quelli che riesci ancora ad incrociare, perché in effetti molti hanno già gli occhi altrove, sull’i-pad, sull’i-phone, sul tabellone contaminuti dell’autobus. 

C’è tanta vita e altrettanta morte.
C’è un mucchio di gente, che varia nel colore, nell’età, nel peso, nei costumi, eppure sei così tremendamente e fottutamente solo.
Puoi attaccarti ai piccoli gesti di umanità: la battuta di un ragazzo adolescente, il sorriso di una donna dai capelli bianchi come la neve e una mano sul carrellino della spesa, una mamma che carezza la guancia del figlioletto…

E sei già nella metro!
La metro, che rimarrà sempre una ‘cosa’ così schifosa e, allo stesso tempo, così banalmente affascinante.
Gruppi di persone ammassate, contatto di pelli e capelli, borse da lavoro che toccano zaini su cui pennarelli indelebili hanno lasciato tracce di amori e di dediche estrapolate dai pezzi in voga di rapper tatuati.
 Un vagone che si trasforma in un contenitore di tutti gli odori e i sapori e i pensieri del mondo.
Che se lo prendessero così com’è e lo lanciassero su Marte, potrebbero tranquillamente porre le basi per popolare un nuovo pianeta, tale e quale alla Terra, né meglio, né peggio.

Milano è così. Ti illudi di vivere in una grande città e poi ti accorgi che ti muovi e respiri in un paio di kilometri quadrati, con il tuo salumiere di fiducia, lo sportello della tua banca, il tabacchino di fronte casa!
Ti muovi sottoterra, sali su un vagone e, senza rendertene conto, riemergi in quello che ti sembra un altro paese e che, in effetti, nella tua terra d’origine lo sarebbe!
Ma a Milano no, a Milano tutto fa brodo!

Milano Milano (senza hinterland) fa un milione, trecentotrentatre mila e oltre di abitanti, sparsi su una superficie di 181 km² con una densità media di più di settemila persone per km².
E dire che Ostuni con le sue frazioni si estende su ben 225 km² e in media di persone ce ne sono una cento cinquantina per km²!
Il paragone non regge, lo ammetto. E poi ho smesso di pensarla come una volta, di credere che Dio avrebbe fatto più fatica a trovarmi in mezzo ai grattacieli che su un morso di costa.

Però una cosa dovete concedermela.  
E questa cosa qui riguarda la solitudine.
Ci sono tanti tipi di solitudine quante sono le ragioni che la provocano.
Ce n’è una che ho provato tante volte e viene dall’incomprensione, una che profuma di libertà e indipendenza e non mi ha mai fatto paura. Poi c’è quella che riguarda le persone che ami, quando sono lontane e le vorresti abbracciare forte forte. Esiste la solitudine di pensiero, che ti coglie quando meno te l’aspetti, anche se sei in famiglia, a casa, con gli amici.

Poi c’è questa qui, questa che provo stamattina, che mi si attacca come una seconda pelle, come una tuta subacquea scura, obbligatoria e facoltativa insieme. È la solitudine che accomuna tutti quelli che hanno fermato la sveglia con me stamattina, pronti a riempire la giornata intensamente, più intensamente possibile, perché altrimenti si muore, si finisce per avere il tempo di aver paura, una paura che uccide.

Oggi, qui, guardandomi attorno, posso scorgere tutti gli atti della mia vita, quelli passati, i presenti e i futuri. Posso riconoscere quello che sono stata e immaginare ciò che sarò. Vedo addirittura distintamente quello che non potrò e non vorrò mai essere. 
Quanto e come vedo stamattina!
Questa solitudine qui è originata dalla nostalgia per l’attimo appena trascorso, quello mai più recuperabile, perso tra le rotaie di quel tram e le gambe ammucchiate di tutta questa cazzo di gente. 
Vedere un così grande potenziale, strizzato tra le cinghie dell’economia e passato al setaccio tra le maglie del tempo che incalza, mi provoca un dolore enorme, lo sento nel petto. Si trasforma in solitudine quando mi accorgo di essere umana tra gli umani, di respirare tra miliardi di respiri senza che nulla abbia più un senso, perché il tutto diventa nulla… 
Mi sento il fiato del tempo sul collo, sento che qualcosa mi rincorre, accelero il passo, corro, scappo, ma da cosa?? Vorrei gridare: “Cosa diavolo corriamo tutti quanti?” “Dove?” “Ne vale la pena?”

E allora io preferisco la solitudine della natura, sì, decisamente. Preferisco la vivacità delle onde del mare, che fanno tanto rumore per nulla, ma sanno fare rumore. Preferisco il vento, le cicale e le lumache dopo la pioggia. Preferisco le cose che mi salvano dalla nostalgia dell’attimo appena trascorso, quelle cose che se il tutto diventa nulla ci pensano loro a farlo tornare ‘tutto’, incoraggiandoti eternamente.

 
Mi piace essere ingannata, sono debole, non sopporto le facce del mondo buttate lì tutte insieme, nella mischia, a dichiarare che la vita fa venire le rughe, le malattie e che bisogna mandare avanti il carro.  
La vita è bella. 
E quando è brutta c’è il mare a ricordarcelo, ci sono le lumache che si fanno una passeggiata sui muretti, l’odore delle polpette, un libro letto sull’amaca che dondola.



Purtroppo a Milano il mare non c’è, le lumache neppure… in un anno si fanno meno polpette del numero di abitanti di Ostuni e i libri si leggono in metro, incastrati nei minuti che ci separano dai luoghi che raggiungeremo, come se il posto dove ci sta portando la trama fosse meno importante, meno reale.

Penso che sono cambiata molto.
E chissà quante altre volte cambierò.

lunedì 9 marzo 2015

Un IO pe(n)sante




Vivere di ‘pesantezze’ fa bene al cuore.
Non lasciate che la leggerezza vi faccia volare lentamente sulle cose, sfiorandole appena, senza conoscerle, toccarle, capirle.
Non lasciate che la superficialità di un tocco dato per sbaglio vi faccia credere di essere stati a contatto con una questione, con un problema, con una persona.
Non lasciate che nessuno vi dica come dovete essere o comportarvi. La verità non esiste, e se esiste non è mai assoluta.
Sprecate tutto il tempo necessario per spiegare il vostro punto di vista, non rinunciate a farlo.
Provate a cambiare idea.
Mantenete un rapporto di confronto con l’idea di bene universale, non allontanatevene mai.
Lasciate che gli altri non vi comprendano, esistono momenti diversi nella vita di ognuno di noi e non sempre devono coincidere.
Fate in modo di essere sinceri, anche se questo vi costa parecchio, anche se significa mostrare i vostri difetti, essere meno apprezzati, apparire più deboli.
Lasciate che gli altri vi vedano per come siete e mai per come dovreste essere, che mai proiettino su di voi sé stessi.
Non tutti sono in grado di esercitare un’influenza positiva sulla nostra vita.
In tanti non ci riescono, perché è una cosa delicata, difficile.
Nessuno, però, che ci conosca e ci ami, deve avere il diritto di sminuirci, spezzare il nostro entusiasmo, la nostra fede profonda nelle cose.

Dobbiamo rivendicare il diritto a credere nei nostri progetti.
Dobbiamo difendere la nostra importanza, il nostro impegno.
Dobbiamo convincere chi non lo crede che fare di più e meglio vale la pena e può cambiare le cose, può rivoluzionare la vita che ci appartiene e quella delle persone con cui siamo a contatto.
Dobbiamo smettere di giustificare le nostre idee, ma iniziare a spiegarle e difenderle, sopra ogni cosa.

Se qualcosa ci rende fieri è perché rappresenta per noi qualcosa di cui andare fieri.
Il resto sono solo le parole di chi non si è sforzato di capire, ma è rimasto in superficie.
È la pesantezza a rompere le barriere della superficialità, a spingerci a fondo.
La 'pesantezza sulle cose' genera riflessione, la leggerezza solo problemi.

Non dobbiamo temere di essere profondi e sognatori perché la crescita e l’arricchimento stanno nel “più”, non nel “sufficiente” e chi crede solamente nel “sufficiente” non è pronto darsi, rimane leggero, non si rende utile, ma inutile.
Chi crede nel “sufficiente” non sa che il segreto di una meritata leggerezza sta proprio nel passare attraverso la pesantezza.

Come questo post, che ha l’aria di essere così pesante, eppure mi ha reso così leggera.
Piena di entusiasmo, orgogliosa, consapevole. Io faccio del mio meglio.
Faccio del mio meglio anche se non salvo il mondo.
Magari, 
salvo me stessa.