giovedì 26 febbraio 2015

Il volo degli uccelli




Alzando gli occhi al cielo, specialmente in questo periodo, può capitare di scorgere stormi di uccelli che, come abili danzatori, danno vita ad uno spettacolo magico.
È lo spettacolo della migrazione, lo spostamento di folti gruppi che, compatti, muovono verso nuove terre in grado di garantire loro la sopravvivenza.
È un fenomeno che colpisce più della metà delle specie presenti nel mondo e rappresenta per ogni singolo volatile un momento cruciale nel corso della sua esistenza.

Una volta rintracciate le ragioni della migrazione nella ricerca di sostentamento e condizioni climatiche più favorevoli, non possiamo non chiederci come diavolo facciano ad ORIENTARSI, a seguire rotte precise ed infallibili, a resistere macinando migliaia di kilometri al giorno.

Il mistero dell’orientamento ha solleticato la curiosità di numerosi scienziati, i quali hanno determinato l’esistenza di diverse tecniche, tutte incredibilmente naturali:

·         - L’orientamento magnetico (gli uccelli sono in grado di allinearsi ai campi magnetici terresti attraverso dei sensori chimici presenti nel cervello, negli occhi e nel becco, una sorta di GPS naturale!!!)
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      - L’orientamento geografico (sono gli elementi naturali come le coste, i fiumi, i laghi, le montagne ad aiutare i volatili nel percorrere le rotte.)
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      - L’orientamento astronomico (gli uccelli seguono le costellazioni e soprattutto il sole!)
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      - La memoria collettiva ( i giovani esemplari imparano la rotta da quelli più anziani, come in ogni specie che si rispetti!!!)

Alcuni esemplari sono in grado di raggiungere numeri da record volando ad un’altezza massima di 8000 metri (al pari delle rotte aeree praticamente) percorrendo circa 3000 km al giorno ad una velocità media di 80Km/h. Dei portenti!!!!

Che forza e che coraggio questi uccelli!
Ma ciò che lascia maggiormente stupefatti è la capacità di muoversi all’unisono, di virare simultaneamente, di creare una concordanza perfetta nelle movenze

Anche su questo punto gli scienziati sono stati in grado di formulare un’equazione matematica in grado di spiegare come l’informazione del cambio di rotta si propaghi nel gruppo.
Pare che per eseguire questa manovra sia necessario “un gruppo dirigente coeso e dialogante” e, quindi, che siano pochi esemplari, in particolari quelli che vengono a trovarsi lungo i bordi dello stormo, a guidare i sottogruppi dei loro simili.
Questo significa che non esiste un vero leader alla guida della rotta, né sono sempre gli stessi esemplari a farlo, bensì tutti gli uccelli sono in grado e possono trovarsi a guidare il cambio di rotta del proprio stormo in un regime che definirei di vera democrazia.

Stando a tutto ciò ho pensato che forse abbiamo tantissimo da imparare dagli uccelli. 
E poi ho pensato anche che ci sono cose che ci accomunano a loro, che una volta eravamo nomadi e cercavamo le condizioni migliori alla sopravvivenza e che da allora non è poi cambiato così tanto.
Anche oggi migriamo, ci spostiamo in cerca di lavoro, in cerca di luoghi dove coltivare sogni o assicurare un futuro ai nostri piccoli.
Anche noi ci organizziamo in gruppi, in comunità, in società, in partiti politici, eppure non siamo bravi come gli uccelli.
Ci manca l’unisono, la fiducia reciproca
, a volte accettiamo ciecamente gli ordini di un leader, a volte ci ribelliamo. 
Ci capita (raramente) di avere leader troppo capaci, cosicchè non siamo in grado di comprenderli o eguagliarli, oppure (più frequentemente) ne abbiamo di ignoranti e meschini e ce ne distacchiamo per non cadere troppo in basso. Se siamo in grado di metterci a guida del cambio di rotta spesso non ne troviamo il coraggio e se, invece, non ne abbiamo le abilità, non facciamo nulla per svilupparle, non ci poniamo domande.

Mentre gli uccelli si librano nell’aria creando forme meravigliose, noi crediamo di muoverci e, invece, restiamo fermi.
Mentre noi li osserviamo ammirati, loro ci guardano "sollevati".

Quante volte abbiamo desiderato di essere uccelli? (a parte le vertigini s’intende!)
E in parte noi lo siamo. In potenza, lo siamo.

Il passo che ci divide dall’esserlo sta nella LIBERTA’ che decidiamo di esercitare.

La differenza è che reprimiamo l’espressione della nostra anima con la scusa di essere limitati dalla gabbia del nostro corpo, con l’idea che il nostro corpo sia una gabbia naturale, un guscio protettivo che ci tiene con i piedi per terra, ben saldi ad un mondo artificiale, fatto di gabbie più grandi, recinti ampi come città, alti come grattacieli, profondi come pozzi di petrolio.

Eppure la natura non conosce gabbie, ma nidi, non crea prigionieri, ma strumenti, la natura si autoregola, senza necessità di giustiziare crudelmente.

Abbiamo davvero molto da imparare dagli uccelli, ma per fortuna, come ha scritto Victor Hugo:

L'anima aiuta il corpo e in certi momenti lo solleva.
 È l'unico uccello che sostenga la sua gabbia.”



mercoledì 18 febbraio 2015

Quant'è bella giovinezza...



-Riflessioni sparse e confuse-



Se Incorvaia e Rimassa potessero rinominare il romanzo pubblicato nel 2006, sono certa che non si intitolerebbe più “Generazione mille euro”, ma semmai “generazione 500 euro” oppure “inoccupati 2.0”!

Ebbene sì, siamo la generazione più istruita, ma meno colta, la generazione con più titoli, ma sempre meno spendibili, corriamo dietro alle nuove tendenze, ma le stanchiamo facilmente, siamo figli delle interfacoltà e delle specializzazioni ad hoc, dei master e dei corsi on-line, eppure ci scordiamo gli accenti sulle ‘e’ e abbiamo difficoltà a comprendere un discorso nel nostro dialetto. 
Viviamo con l’angoscia di riempire il nostro curriculum, rinunciando a riempire la nostra vita vera. 
Coltiviamo le passioni come sogni che non realizzeremo mai, come capricci che nel mondo in cui respiriamo sono erbacce da estirpare.

Ma siamo davvero così diversi dalle generazioni che ci hanno preceduto? E se si, in cosa? Davvero questa corsa matta verso un futuro inafferrabile è uno slancio verso il progresso? Oppure siamo fermi ed impantanati senza rendercene davvero conto? 

E la risposta arriva in maniera inattesa e quasi sorprendente.....

Qualche giorno fa in una sala d’aspetto ho ascoltato una delle conversazioni più illuminanti dell’ultimo mese, complici due file di sedie ai lati della stanzetta quadrata e ore interminabili nell’attesa del proprio turno.
Due vecchine dal viso stanco, ma ugualmente vivace, si lasciavano andare ai racconti delle loro vite, così diverse e così somiglianti alle nostre, cavalcando l’onda del ricambio generazionale. Chiacchieravano dei loro malanni e dei sacrifici che la vita aveva portato con sé, con un misto di malinconia e rassegnazione e si rivolgevano al loro personale pubblico, fatto delle poche anime che quello spazio poteva contenere.

SIGNORA 1: “Quand sacrific’ im fatt! Ij acchiebb na fatìa ca m’ha cambat la vita. Agn giurn pulzava cinguanta cammr. Nc’ vuleva na forza, ma erm juvn e la tnemm, e la fatìa sctava. Pensa nu picca ca mu alli residence p paià d men, nann esist cchiù lu serviz p pulza li cammr. A c’ngata vo’ s’ lassn li lanzulu pulit sobba allu liett e s li fach’n loro li srvezj.”

SIGNORA 2: “Acchssica it! Però fatiamm p’ avvé lu necessarij. Li cos ca prima nann putemm accattà, mu s scettn, ma nu sim viecchj e c cosa n’ima ffa? Ca prima a pan e pummdor s sceva, piccì, mica cumm a mu ca esistn tanta cos.”

RAGAZZO X: “Ca nang’ì ver signò. La malatìa d iosc se qual it, signò? La depression! E se da c’ vanna ven? Da tutt scti puttanat d’ mu!

SIGNORA 2: “Ij dich semb na cosa, piccì, ca prima erm cuntent e nallu capemm!”

Ed ecco una schiacciante verità: ERAVAMO FELICI E NON LO SAPEVAMO!

Quant’è vero, ho pensato.
Quante volte accade di non accorgersi della felicità, se non a posteriori.
A confronto siamo noi la generazione più debole, ho pensato, quella più viziata e viziosa, quella che si deprime e soffre perché desidera e non ottiene, quella sulla quale l’economia fa leva, alla quale si vendono i beni accessori come necessari.
 
Ma poi ci ho riflettuto un po'...
A conti fatti, NO! Non siamo così diversi dalle generazioni che ci hanno preceduto!
Se i nostri nonni si rimboccavano le maniche e si spezzavano la schiena, noi ci facciamo il nodo alla cravatta e sopportiamo il fastidio dei tacchi per risultare presentabili, freschi, dinamici, convincenti.
"Noi" siamo quelli del sorriso stampato per forza, dello 'show' che deve andare avanti, quelli che provano di tanto in tanto a lottare per la meritocrazia, invece che per la sopravvivenza, quelli soggetti ad una violenza sottile che, anche se non è fatta di armi e di guerre, sa ferire e miete le sue vittime.
I nostri sacrifici non sono poi tanto diversi dai loro, cambiano i modi e i tempi, ma non l’impegno e la meta.

Tirando le somme, io credo che in ogni storia che si rispetti si fanno passi in avanti e si pongono pietre miliari, ma questo accade a spese degli ingranaggi della macchina dell’umanità. E la macchina dell’umanità è fatta di storie individuali, singoli uomini e donne che corrono sui tapis roulant della propria vita e si preoccupano di porre basi buone per salvaguardare la propria generazione e al più quella dei propri figli. 

Tra sessant’anni, a Dio piacendo, saremo "quelle vecchine", parleremo della nostra storia e, forse, sapremo dire se eravamo felici.

sabato 14 febbraio 2015

Omnia Vincit Amor (parte seconda)



Alla voce AMORE l’enciclopedia Treccani risponde con ben sei punti, tutti corredati di una gamma di definizioni più specifiche (espletate in lettere fino alla d). 
 
Ma che cos’è l’amore?

In migliaia di anni non si è prodotta una sola spiegazione che non sia stata poi ampliata, arricchita, ornata, o addirittura ridotta all’osso, mortificata o onorata di un silenzio che vale più di tante parole. 

Mi chiedo cosa significhi ‘amore’ prima ancora di voler sapere quali sono i suoi effetti. O forse dovrei pensare che sono proprio i suoi effetti a renderlo tale, a farne un gigante dalla forza inesauribile e dall’aspetto mostruosamente umano? 

Esiste, fluisce, lo usiamo di continuo, ovunque, ma è astratto o concreto quest’amore?   Si vede, si tocca, si ode, si annusa, si gusta? 
Si e no.  
Per capirlo ho cercato la risposta in quell’ottantenne saputella della Treccani e la sua saggezza mi è venuta in aiuto anche stavolta!     
 
Il punto 1a recita così: 
Sentimento di viva affezione verso una persona che si manifesta come desiderio di procurare il suo bene e di ricercarne la compagnia’.         
Niente di più meraviglioso!          

L’affectus è ciò che tocca lo spirito, il profondo fondo dell’anima e lo scuote. 
Si può essere affetti da amore come da una malattia, ma in quanto a sconvolgimento sembra non esserci una grande differenza! Allora possiamo ragionevolmente credere che anche l’amore sia una specie di malattia dai poteri speciali che ogni tanto ci colpisce? È una sorta di febbre buona e se ci sconvolge dentro nella maniera giusta siamo in grado di svilupparne anticorpi buoni a reggere tutta la vita; nel caso contrario passa presto e dopo un breve periodo di 3L (latte, lana, letto) si riprende la solita routine più forti di prima.

Il punto 2a, poi, restringe il campo definendolo un attrazione tra ‘due persone (ordinariamente ma non necessariamente di sesso diverso) che può assumere forme di pura spiritualità, forme in cui il trasporto affettivo coesiste, in misura diversa, con l’attrazione sessuale, e forme in cui il desiderio del rapporto sessuale è dominante, con carattere di passione, talora morbosa e ossessiva’.  
Qui il gioco si fa parecchio duro! Entra in scena il dualismo, la coesistenza di due aghi in grado di pungere contemporaneamente l’anima e il corpo. Ognuno ha due aghi e ogni gioco d’amore richiede minimo due partecipanti. Il numero obbligatorio di aghi in uso diventa dunque di quattro e tutti pronti a bucherellare a destra e sinistra senza sincronia, senza regole, perché l’unica regola posta da affetto e attrazione è che non esistono leggi in grado di condizionarne il compimento.
Che gran caos!   
Ecco allora perché l’amore è complicato, perché somiglia ad una malattia delirante a cui tutti in fin dei conti ci ‘affezioniamo’.    

Ma la definizione più simpatica arriva al punto 6a, quando credi di sapere già tutto sull’amore e leggi:
In botanica, amor perfetto o amor nascosto, nomi comuni della pianta Aquilegia vulgaris.          
È un meraviglioso fiore alpino legato alla leggenda medievale della metamorfosi di Rutibando.
Il principe era a tal punto lussurioso e prepotente che fu punito con la trasformazione in un fiore, però, ridicolo e buffo, che non sarà accarezzato da nessuna donna né colto da alcun innamorato.
Il nome del fiore vuol dire ‘raccoglitore d’acqua’ eppure risulta essere noto per l’aspetto grottesco e ricco di corna

Dov’è allora l’amor perfetto se oggi nessun amante si sognerebbe mai di regalare il fiore dei cornuti? 

La risposta l’hanno trovata prima di noi i nativi d’America e forse sarà bastato cercare nell’essenza invece che nell’aspetto, indagare il contenuto prima che la forma
Si dice che loro usassero un infuso di varie parti della pianta per una gran varietà di cure, dal mal di cuore alla febbre e come anti-veleno. Polverizzavano i semi e ne strofinavano la farina sulle mani come afrodisiaco e come profumo da uomo per attrarre la donna desiderata. 

Eccoli qua belli e in fila: l’amore, l’affetto, la febbre, l’attrazione, il desiderio

E chi l’avrebbe mai detto che un fiore così buffo potesse sfidare la Treccani e le definizioni che si susseguono da migliaia di anni. 
A me va bene così.
E, a quanto pare, l’Amor perfetto si spiega da solo!!!