-Riflessioni sparse e confuse-
Se Incorvaia e Rimassa potessero rinominare il
romanzo pubblicato nel 2006, sono certa che non si intitolerebbe più “Generazione
mille euro”, ma semmai “generazione 500 euro” oppure “inoccupati 2.0”!
Ebbene sì, siamo la generazione più istruita, ma meno colta, la generazione con più titoli, ma sempre meno spendibili, corriamo dietro alle nuove tendenze, ma le stanchiamo facilmente, siamo figli delle interfacoltà e delle specializzazioni ad hoc, dei master e dei corsi on-line, eppure ci scordiamo gli accenti sulle ‘e’ e abbiamo difficoltà a comprendere un discorso nel nostro dialetto.
Viviamo con
l’angoscia di riempire il nostro curriculum,
rinunciando a riempire la nostra vita vera.
Coltiviamo le passioni come sogni
che non realizzeremo mai, come capricci che nel mondo in cui respiriamo sono
erbacce da estirpare.
Ma siamo davvero così diversi dalle generazioni che
ci hanno preceduto? E se si, in cosa? Davvero questa corsa matta verso un
futuro inafferrabile è uno slancio verso il progresso? Oppure siamo fermi ed
impantanati senza rendercene davvero conto?
E la risposta arriva in maniera inattesa e quasi
sorprendente.....
Qualche giorno fa in una sala d’aspetto ho ascoltato
una delle conversazioni più illuminanti dell’ultimo mese, complici due file di
sedie ai lati della stanzetta quadrata e ore interminabili nell’attesa del
proprio turno.
Due vecchine dal viso stanco, ma ugualmente vivace,
si lasciavano andare ai racconti delle loro vite, così diverse e così
somiglianti alle nostre, cavalcando l’onda del ricambio generazionale. Chiacchieravano
dei loro malanni e dei sacrifici che la vita aveva portato con sé, con un misto
di malinconia e rassegnazione e si rivolgevano al loro personale pubblico,
fatto delle poche anime che quello spazio poteva contenere.
SIGNORA 1: “Quand sacrific’ im fatt! Ij acchiebb na
fatìa ca m’ha cambat la vita. Agn giurn pulzava cinguanta cammr. Nc’ vuleva na
forza, ma erm juvn e la tnemm, e la fatìa sctava. Pensa nu picca ca mu alli
residence p paià d men, nann esist cchiù lu serviz p pulza li cammr. A c’ngata
vo’ s’ lassn li lanzulu pulit sobba allu liett e s li fach’n loro li srvezj.”
SIGNORA 2: “Acchssica it! Però fatiamm p’ avvé lu necessarij. Li cos ca prima nann putemm accattà,
mu s scettn, ma nu sim viecchj e c cosa n’ima ffa? Ca prima a pan e pummdor s
sceva, piccì, mica cumm a mu ca esistn tanta cos.”
RAGAZZO X: “Ca nang’ì ver signò. La malatìa d iosc
se qual it, signò? La depression! E se da c’ vanna ven? Da tutt scti puttanat d’
mu!
SIGNORA 2: “Ij dich semb na cosa, piccì, ca prima erm cuntent e nallu capemm!”
Ed ecco una schiacciante verità: ERAVAMO FELICI E
NON LO SAPEVAMO!
Quant’è vero, ho pensato.
Quante volte accade di non accorgersi della felicità, se non a posteriori.
Quante volte accade di non accorgersi della felicità, se non a posteriori.
A confronto siamo noi la generazione più debole, ho pensato,
quella più viziata e viziosa, quella che si deprime e soffre perché desidera e
non ottiene, quella sulla quale l’economia fa leva, alla quale si vendono i
beni accessori come necessari.
Ma poi ci ho riflettuto un po'...
A conti fatti, NO! Non siamo così diversi dalle generazioni che ci hanno
preceduto!

"Noi" siamo quelli del sorriso stampato per forza, dello 'show' che deve andare avanti, quelli che provano di tanto in tanto a lottare per la meritocrazia, invece che per la sopravvivenza, quelli soggetti ad una violenza sottile che, anche se non è fatta di armi e di guerre, sa ferire e miete le sue vittime.
I nostri
sacrifici non sono poi tanto diversi dai loro, cambiano i modi e i tempi, ma non l’impegno
e la meta.
Tirando le somme, io credo che in ogni storia che si rispetti si fanno passi in
avanti e si pongono pietre miliari, ma questo accade a spese degli ingranaggi
della macchina dell’umanità. E la macchina dell’umanità è fatta di storie
individuali, singoli uomini e donne che corrono sui tapis roulant della propria vita e si
preoccupano di porre basi buone per salvaguardare la propria generazione e al più quella dei propri figli.
Tra sessant’anni, a Dio piacendo, saremo "quelle vecchine", parleremo della nostra storia e, forse, sapremo dire se
eravamo felici.
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